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La zia Cloe si gettò addietro sulla seggiola ridendo sgangheratamente di quell’arguzia del suo padroncino, e rise tanto di cuore, che le lacrime scorsero sulle sue guance d’ebano. Ella si pose a folleggiare con lui dicendo:
— Va’ là, va’ là, furfantello, vuoi farmi crepare dalle risa! — E la zia Cloe fu presa in questo punto da una più forte convulsione di riso, cosicché Giorgio cominciò a credersi veramente un ragazzo di spirito e a pensare che d’allora in poi doveva porre grande attenzione a chi si rivolgeva quando gli venisse il ticchio di celiare.
— Voi dunque ne empite spesso le orecchie a Tom? Oh, guardate di che s’intrattiene questa gioventù! Lo volete davvero soverchiare, quel povero Tom! Ah, padroncino Giorgio, fareste ridere anche un morto!
— Sì. Io dissi a Tom: «Vorrei pur farvi assaggiare i pasticci di zia Cloe. Sono i migliori dei mondo».
— Povero Tom! — soggiunse la zia Cloe, che per tenerezza di cuore sentiva pietà della dura condizione di quell’infelice giovanotto. — Voi dovreste invitarlo qualche giorno a pranzo da noi; sarebbe un’azione meritoria. Già sapete, padroncino Giorgio, che non bisogna credersi da più degli altri a cagion dei propri vantaggi; questi ci sono concessi dall’alto, non è vero? Convien pure ricordarsene, — disse la zia Cloe con voce solenne.
— Va benissimo; io inviterò Tom un giorno della prossima settimana, ed al resto penserete voi, zia Cloe. Lo impinzeremo in modo da farlo stare a letto per quindici giorni.
— Sì, sì, ma davvero, — disse la zia Cloe tutta gongolante — vi farò veder io!
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