Haley, — continuò egli a dire passando subito da un fare freddamente dignitoso a quello che gli era abituale, di franchezza benevola — il meglio per voi sarà di non inquietarvi tanto, di far colazione qui con noi, e di veder poscia che cosa si potrà fare in vostro servizio. —
La signora Shelby non poté star più ferma, e dicendo che le sue occupazioni non le permettevano di trovarsi alla colazione per quella mattina, uscì dalla sala.
Venne poi in sua vece una zittellona mulatta a disporre ogni cosa.
— La vostra signora non vede gran fatto volentieri il vostro umile servitore, — disse Haley, disponendosi con mal garbo a modi propriamente familiari.
— Non sono avvezzo a sentir parlare con tanta libertà di mia moglie, — replicò il signor Shelby seccamente.
— Domando scusa. Del resto, ho detto così per celiare, capite bene, — rispose Haley facendo un grande sforzo per sorridere.
— Vi sono celie più o meno gradevoli, — soggiunse Shelby.
«Diamine, è divenuto molto più superbo dopo che io sottoscrissi quelle carte!» borbottò fra i denti Haley. «Che burbanza da ieri in qua!»
Non mai caduta di primo ministro cagionò impressione più viva quanto la notizia della sorte di Tom subito sparsa tra i suoi compagni di schiavitù. Essa fu tosto argomento di tutti i discorsi, né altro più facevasi nella casa e nella piantagione che discuterne i probabili risultamenti. La fuga stessa d’Elisa, cosa senza esempio in quella fattoria, non era che un accessorio in tanta commozione.
Samuele il Nero, che così era chiamato per esser egli più nero di tre gradi d’ogni altro schiavo di quella piantagione, mostrava, nel discuter l’affare dal lato del suo interesse proprio, una profondità di concetti ed una perspicacia assai rara.
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