Quando questa bevanda gli fu mesciuta, egli la prese, la esaminò con aria di compiacenza a guisa d’uomo il quale si compiace d’aver fatto quel che desiderava appunto di fare, e si dispose a sorbirla da vero intelligente.
— Per questa volta, ecco quel che si può dire aver fortuna. Come va, Loker? — disse Haley inoltrandosi e stendendo all’omaccione la mano.
— Per il diavolo! Che cosa vi conduce qui, Haley? — tale fu la cortese risposta di Loker.
L’ometto che portava il nome di Marks posò il suo bicchiere d’un tratto, e avanzando la testa guardò con viva curiosità il sopraggiunto.
— Davvero, Tom, ecco la miglior fortuna possibile. Io sono in un imbroglio, e bisogna che voi mi aiutiate ad uscirne.
— Uhm! Uhm! Lo credo bene! — brontolò il poco amabile individuo. — Quando siete contento di vedere qualcuno, è certo che avete bisogno di lui. Di che si tratta?
— È un vostro amico, costui? Un socio forse? — disse Haley con una certa titubanza.
— Per l’appunto. Ecco, Marks, vi presento il mio antico socio di Natchez.
— Lietissimo di fare la vostra conoscenza! — disse Marks tendendogli una mano secca come l’artiglio d’un corvo. — Il signor Haley, credo?
— Egli stesso, signore, — rispose Haley. — E adesso, signori, per festeggiare il nostro incontro, bisogna ch’io paghi qualche cosa. Ehi, vecchia marmotta, — gridò all’oste — dell’acqua calda, zucchero, sigari e acquavite a bizzeffe, ma subito. —
Accese le candele, il fuoco ravvivato, i nostri tre degni individui si assisero intorno a una tavola ben provvista.
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