Haley snocciolò un patetico racconto delle sue tribolazioni. Loker lo ascoltava in silenzio, con piglio attento e burbero. Marks, che stava componendo con la più gran cura un ponce di suo gusto particolare, alzava di quando in quando gli occhi, e appuntando il naso affilato e il mento verso la faccia di Haley, seguiva col più vivo interesse la narrazione di lui.
La fine della storia parve lo divertisse molto, a giudicarne da certi atti che indicavano un riso a stento represso.
— Così dunque vi hanno servito proprio per le feste? Ah, ah, ah! Bisogna convenire che il tiro è ben condotto, — diss’egli.
— Il commercio di codesti piccini mette sempre nell’imbroglio, — soggiunse mestamente Haley.
— Se potessimo trovare una razza di femmine che non fossero così tenere de’loro bamboli, in fede mia sarebbe questa la migliore delle scoperte, — disse Marks, accompagnando d’un riso di compiacenza questa sua arguzia.
— In verità, — osservò Haley — io per me non ci ho capito mai nulla. Questi bimbi non arrecano mai loro che fastidi; si potrebbe credere per conseguenza ch’esse dovessero esser contente di sbarazzarsene; niente affatto: anzi, più quelli son loro cagione di affanno, più esse voglion loro un bene matto.
— È vero, signor Haley! — disse Marks. — Favoritemi dell’acqua calda. Sì, è per l’appunto come voi dite. Vedete: io, quando ero negli affari, comprai una giovane, robusta, graziosa e molto intelligente. Ella aveva un piccino che era miseramente infermiccio, gobbo, o poco meno. Non sapendo che cosa farne, lo diedi ad un uomo, il quale, visto che il piccino non gli costava nulla, volle pure allevarlo a suo rischio e pericolo.
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