Saporite fette di prosciutto, bei pezzi di focaccia, grossi frammenti di pasticcio in tutte le immaginabili figure geometriche, ali di pollo, ventrigli, tutto si vedeva mischiato in una pittoresca confusione. E Samuele, a guisa di monarca, sedeva a mensa contemplando quella gustosa varietà, col suo cappello di palma sull’orecchio, dopo aver consentito che Andy gli si collocasse a destra.
La cucina era già piena di compagni che erano usciti in fretta e a torme dalle diverse capanne per udire il seguito dei fatti della giornata. Era questa per Samuele l’ora del trionfo. La storia del giorno fu ripetuta con ogni sorta d’ornamenti e fregi che ne potessero aumentare l’effetto; poiché Samuele, come taluni dei nostri novellieri eleganti, non spacciava mai una storiella senza abbellirla con qualche tratto di sua invenzione. Scrosci di risa accompagnavano il racconto, ed erano qua e là rinnovati e prolungati da tutta la minuzzaglia dei servi che allungavano il collo intorno, e da ogni angolo della cucina. In mezzo a questo subbuglio e a questi sghignazzamenti, Samuele conservava un’impassibile gravità; solo di quando in quando alzava gli occhi, o volgeva agli uditori certe inesprimibili occhiate buffonesche, senza dipartirsi dalla sentenziosa altezza dei suoi ragionamenti.
— Vedete, compaesani! — diceva Samuele, impugnando con energia una coscia di gallinaccio. — Questo vostro omiciattolo ha coraggio di difendervi tutti quanti siete. Perché, secondo me, chi è capace di difendere uno, è capace di difender tutti; il principio è lo stesso, non v’è dubbio.
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