— A che servono i loro talenti e tutte queste belle cose, se non potete usarne voi stessi? Costoro se ne servono solo per ingannarvi. Io avevo uno o due di questi negri, e mi sono affrettato a venderli per il Sud, perché sapevo bene che presto o tardi li avrei perduti, se non mi fossi appigliato a questo partito.
— Meglio sarebbe stato ucciderli; le loro anime sarebbero almeno rimaste libere! —
Qui la conversazione fu interrotta dall’arrivo d’un elegante calessino tirato da un cavallo. V’era dentro un uomo di aspetto signorile, e lo guidava un servo di colore.
Tutta la comitiva si diede ad osservare quel forestiero con quell’attenzione che suol destare, in un giorno piovoso, il sopraggiungere d’un nuovo ospite in mezzo ad una frotta di oziosi.
Egli era assai alto, con tinta bruna da spagnuolo; aveva gli occhi grandi, neri, molto espressivi, e la capigliatura abbondante e a ricci d’un bel nero lucido. Il suo naso aquilino, la bocca piccola e i contorni leggiadri delle sue forme impressero nell’animo di tutti gli astanti l’idea che fosse un uomo di merito.
Quegli entrò con modi franchi in mezzo alla comitiva; con un gesto indicò al suo servo il luogo dove voleva deposta la sua valigia, salutò gli astanti, e inoltratesi al banco dell’oste si fece iscrivere sotto il nome di Enrico Butler, d’Oakland, contea di Shelby.
Voltosi poi con aria d’indifferenza, si avvicinò al cartello di cui parlammo sopra, e lo percorse con lo sguardo.
— Gim, — diss’egli al suo servo — mi pare che abbiamo incontrato colaggiù, presso Bernon, un giovane rassomigliante a questo.
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