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      — Sì, padrone, — disse Gim — ma non aveva marca sulla mano, mi pare.
      — Non ci ho badato, — soggiunse il forestiero con uno sbadiglio di noncuranza.
      Indi, appressatesi all’oste, lo pregò di farlo condurre ad una camera particolare, poiché aveva da scrivere.
      Il locandiere usava modi gentilissimi ed ossequiosi, e un distaccamento di sei o sette negri, fra giovani e vecchi, maschi e femmine, piccoli e grandi, si pose subito in moto, ronzando come uno sciame di pecchie, spingendosi, urtandosi, pestandosi l’un l’altro i piedi, nel loro zelo per servire il forestiero, mentre egli stesso, seduto nel mezzo della sala, attaccava discorso con colui che gli era vicino.
      Da che il nuovo ospite era entrato in sala, il fabbricante Wilson non n’aveva distolto lo sguardo, spinto da un’ansiosa ed inquieta curiosità.
      Gli sembrava di essersi già incontrato con lui, benché non si ricordasse dove. Ogni volta che lo straniero parlava o faceva una mossa, o sorrideva, egli si sentiva dare una scossa e fissava su lui gli occhi, per distoglierli appena ne incontrava lo sguardo del tutto indifferente.
      Da ultimo parve che un raggio gl’illuminasse la mente, perché si pose a considerar lo straniero con un’espressione di stupore e di spavento. Questi allora si alzò e, accostatesi a lui, disse, come se lo avesse ravvisato a un tratto, e porgendogli la mano:
      — Il signor Wilson, mi pare? Vi chiedo perdono di non avervi riconosciuto prima. Vedo che vi rammentate di me, Butler d’Oakland, contea di Shelby.
      — Voi... sì... sì, signore.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





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