Giorgio, coi pugni stretti, con l’occhio sfavillante, provava impeti di furore ben naturali in un uomo che vede la propria moglie destinata all’incanto e il figlio consegnato a un mercante di creature umane, e tutto ciò con la protezione delle leggi di un paese cristiano.
— Che faremo, Giorgio? — domandò Elisa con voce semispenta.
— So ben io quello che farò! — rispose Giorgio. Ed entrato nell’attigua cameretta si diede ad esaminare le sue pistole.
— Ahi, ahi! — esclamò Finea crollando il capo. — Tu vedi, Simeone, che cosa sta per accadere.
— Lo vedo, — disse Simeone sospirando — e prego Dio che non sia necessario ricorrere a questi mezzi estremi.
— Non voglio che alcuno si esponga, per me, — rispose Giorgio. — Se non v’incresce di prestarmi la vostra vettura e darmi qualche indicazione, andremo noi soli. Gim ha la forza di un Ercole ed è fiero come la morte e la disperazione, e tale sono anch’io.
— Eh, va bene, amico! — replicò Finea. — Ad ogni modo tu hai bisogno d’una guida. Combatti pure, se te ne senti voglia; ma vi sono alcuni passi della strada che noi soli conosciamo.
— Ma io non voglio mettervi in un impiccio.
— Mettermi in un impiccio? — esclamò Finea con una certa espressione singolare ed ironica. — Quando riuscirai a metter me in un impiccio, abbi la compiacenza di farmelo sapere.
— Finea è un uomo abile e prudente, — disse Simeone. — Farai bene, Giorgio, di attenerti ai suoi consigli. Ma — soggiunse ponendo in atto amichevole la mano sulla spalla del giovane e additandogli le pistole — soprattutto non esser troppo corrivo: i giovani hanno il sangue che bolle.
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