— Amico Giorgio, — disse Simeone dalla cucina — ascolta questo salmo che forse ti farà del bene. —
Giorgio si avvicinò all’uscio, ed Elisa, tergendosi le lacrime, si avanzò anch’ella per ascoltare.
Simeone lesse:
«Or quanto è a me, quasi che inciamparono i miei piedi: come nulla mancò che i miei passi non sdrucciolassero.
«Perciocché io portavo invidia agl’insensati, veggendo la prosperità degli empii.
«Perciocché non vi sono alcuni legami alla lor morte; e la lor forza è prosperosa.
«Quando gli altri uomini sono in travagli, essi non vi son punto, e non provano i flagelli cui gli altri uomini sono esposti.
«Perciò la superbia li cinge a guisa di collana; la violenza l’involge come una veste.
«Gli occhi escono loro fuori per lo grasso, essi hanno più di quanto il cuore possa desiderare.
«Sono dissoluti e per malizia discorrono di oppressione; il loro linguaggio è orgoglioso e superbo.
«Perciò il popol di Dio riviene a questo, veggendo che l’acqua è lor data a bere a pien calice.
«E dice: come può essere che Dio sappia ogni cosa, e che vi sia conoscimento nell’Altissimo?»
Dopo aver terminato, concluse:
— Non sono questi, o Giorgio, i tuoi stessi pensieri?
— Sì, in verità, — rispose Giorgio — e vi porrei sotto il mio nome.
— Ebbene, ascolta ancora, — disse Simeone.
«Io ho dunque pensato di volere intendere questo: ma la cosa m’è parata molto molesta.
«Infino a tanto che sono entrato ne’ santuarii di Dio, ed ho considerato qual sarà il fine di coloro.
«Certo tu li metti in isdruccioli, tu li trabocchi in ruine.
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