— Temo di no, padrone, — rispose Tom gravemente. Saint-Clare posò il giornale e la sua tazza di caffè, e si pose a guardare Tom.
— Che faccenda è questa, Tom? Tu sei grave e triste come una cassa da morto.
— Sì, è vero, sono molto afflitto. Io avevo creduto sempre che il padrone sarebbe buono con tutti...
— E non lo sono forse? Suvvia, che cosa desideri? Tu hai bisogno di qualche cosa, suppongo, ed è questa una prefazione della domanda.
— Il padrone è stato sempre buono con me, ed io non ho da lagnarmi di nulla; ma c’è qualcuno con cui il padrone non è buono.
— Che cosa intendi dire? Che ghiribizzo ti prende? Spiegati.
— Questa notte, sulle due io ci ho riflettuto, e ho conchiuso fra me: il padrone non è buono con se medesimo. —
Quand’ebbe detto queste parole, Tom voltò le spalle e si diede ad aprir l’uscio. Saint-Clare arrossì; poi, mettendosi a ridere, esclamò:
— Oh! Non c’è altro che questo?
— Sì, — rispose Tom rivoltandosi e inginocchiandosi dinanzi a Saint-Clare. — O mio giovane e diletto padrone, io temo che voi corriate alla vostra rovina, alla perdita di tutto: corpo e anima. Il buon libro dice: «Il peccato morde come il serpente e punge al pari del basilisco», mio caro padrone! —
I singhiozzi soffocarono la voce di Tom, e grosse lacrime gli scorrevano per le guance.
— Grullo che sei! — disse Saint-Clare, che aveva anch’esso gli occhi pieni di lacrime. — Alzati. Non merito che tu pianga per me! —
Ma Tom continuava a stare in quell’umile atteggiamento, e guardava Saint-Clare in modo supplichevole.
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