Se qualche cosa andava male nel pranzo, essa aveva pronte cinquanta buone ragioni in favor suo; e senza dubbio la colpa cadeva su cinquanta altri individui dei quali ella si sforzava invano di stimolare lo zelo.
Per altro, assai di rado avveniva che Dina mancasse nel compito suo. Benché il suo modo di procedere fosse molto arruffato, benché la sua cucina sembrasse di solito messa a soqquadro dall’uragano, benché, insomma, per ogni utensile vi fossero tanti posti quanti giorni ha l’anno, ciò nonostante, purché si avesse la pazienza di aspettare alquanto, veniva alfine il pranzo servito in bell’ordine e gustoso in modo da sodisfar pienamente il palato di un epicureo.
Era l’ora solita dei preparativi del pranzo. Dina, a cui allora occorrevano lunghi momenti di riflessione e di riposo e che amava sempre i suoi comodi, stava sdraiata sul pavimento della cucina fumando una vecchia pipa che le era molto cara e ch’essa accendeva, quasi un incensiere, allorché aveva bisogno d’ispirazione. Era questo il modo col quale Dina invocava le muse domestiche.
Intorno a lei stavano seduti vari membri di quella fiorente gioventù di cui è sempre gran copia nelle abitazioni dell’America meridionale, sgusciando piselli, mondando patate, pelando polli e uccelletti, o intenti ad altre minute occupazioni di simil genere; e Dina interrompeva di quando in quando le sue importanti meditazioni, per dare con la mestola sulle spalle ora a questo ora a quello de’ suoi giovani coadiutori. E in verità Dina governava tutte quelle teste lanute con dispotismo, e pareva credesse che costoro fossero stati creati apposta per risparmiare i suoi passi, come diceva lei.
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