— Ed io — disse Saint-Clare — ne domai una volta uno, contro cui erano riusciti vani tutti gli sforzi di soprintendenti e padroni.
— Voi? — esclamò Maria. — Davvero vorrei sapere quando faceste una cosa simile!
— Era un negro pieno di forza e d’una statura gigantesca, nato nell’Africa, il quale possedeva al massimo grado l’istinto selvaggio della libertà: un vero leone dell’Africa. Si chiamava Scipione. A nessuno, come ho già accennato, era mai riuscito di piegarlo, ed egli era passato da un padrone all’altro fino al giorno in cui Alfredo lo comprò pensando che sarebbe stato più fortunato degli altri; ma una volta costui atterrò con un manrovescio il soprintendente, e se ne fuggì alle paludi. Io stavo allora visitando la piantagione di mio fratello, alcuni mesi dopo la nostra separazione. Alfredo era furente. Ma io gli dissi che se lo schiavo era fuggito se ne incolpasse il padrone, e presi volentieri l’impegno di domare quell’uomo. Convenimmo dunque tra noi che, se mi fosse riuscito di prendere lo schiavo, Alfredo me lo avrebbe lasciato perché io ne facessi l’esperimento; ed eccoci in sei o sette uomini con cani e fucili, riuniti per correre a questa caccia. Sapete bene che vi sono uomini i quali possono cacciare un loro simile con non minore entusiasmo che un daino: tutto dipende dall’abitudine. Fatto sta ch’io medesimo mi sentivo un poco eccitato, quantunque non mi fossi offerto che come mediatore qualora lo schiavo fosse raggiunto e ripreso. I cani abbaiavano, urlavano; noi battevamo la campagna.
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