Essa credeva che nessuno avrebbe mai potuto soffrire al pari di lei; perciò sdegnavasi ogni volta che si facevano dinanzi a lei allusioni a malori di chiunque. Maria, in tali casi, era sempre persuasissima che l’infermità altrui derivasse dalla loro infingardaggine o da mancanza d’energia, aggiungendo che, ove si avesse la menoma idea di ciò ch’ella soffriva, si vedrebbe tosto la differenza.
Miss Ofelia aveva tentato più volte, ma invano, di risvegliare i materni timori di lei a proposito di Evangelina.
— Non vedo che Eva sia menomamente indisposta; — rispondeva Maria — ella salta, giuoca...
— Ma ha la tosse.
— Che significa questo? Oh, non mi venite a parlar di tosse. Quando io avevo l’età d’Eva, tutti mi dicevano tisica. Ogni notte Mammy doveva stare al mio letto. La tosse d’Eva è una cosa da nulla!
— Ma ella deperisce, ha il respiro difficile!
— Anch’io soffersi ciò anni ed anni; è un’affezione nervosa.
— Ha traspirazioni copiose ogni notte.
— Ebbene, io ci vado soggetta da dieci anni. Spesso nella notte mi sveglio tutta in sudore; le mie vesti, le mie coperte ne sono inzuppate in modo, che Mammy è obbligata a stenderle affinché asciughino. Le traspirazioni d’Eva non sono paragonabili alle mie. —
Miss Ofelia dovette tacere per qualche tempo; ma allorché il deperimento d’Evangelina fu visibile e incontestabile, Maria cambiò improvvisamente linguaggio.
Diceva che da gran tempo aveva presentito che era destinata a divenire la più infelice delle madri. Così rifinita di salute, doveva assistere co’ suoi occhi alla lunga agonia della figliuola.
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