E quanto più commosso sarebbe stato il buon Tom se avesse compreso il senso di queste belle parole:
«Recordare, Jesu pie,
Quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.
Quaerens me sedisti lassus,
Redemisti crucem passus.
Tantum labor non sit cassus.»
Saint-Clare pose nelle parole un’espressione di soave e alta malinconia, poiché gli pareva di rivivere nei primi suoi anni e udire la voce di sua madre che guidava la sua. La voce e lo strumento armonizzavano, quasi ambedue avessero la stessa vita, ed emettevano con un ardore simpatico le dolci e care melodie che l’anima di Mozart concepì alla sua ultima ora, come per accompagnare da se medesimo il suo proprio funerale.
Quando Saint-Clare ebbe cessato il canto, rimase per pochi istanti con la testa nascosta tra le mani; indi cominciò a passeggiare novamente in su e in giù per la sala.
— Che sublime concetto — diss’egli — è quello di un giudizio finale! La riparazione di tutte le ingiustizie che furono commesse nel corso dei secoli! Una sapienza infallibile che svolge tutti i problemi morali. E un’idea veramente maravigliosa.
— E terribile per noi, — disse miss Ofelia.
— Credo che dovrebbe esser tale per me, — rispose, fermandosi con aria pensosa, Saint-Clare. — Io stavo leggendo a Tom in questo pomeriggio il capitolo di San Matteo, nel quale si tiene parola di ciò, e ne sono rimasto vivamente commosso. Si pensa che le enormità commesse dagli uomini siano la ragione per cui vengono esclusi dal Cielo; ma no; essi son condannati per non aver fatto il bene effettivo, come se una tal trascuranza contenesse in sé tutto il male possibile.
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