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      Il cielo per esso non aveva più né luna né stelle; tutto era passato per lui, come rapidamente passavano sotto i suoi occhi le rive. La casa del Kentucky, co’ suoi padroni indulgenti, con sua moglie e i suoi figli, la casa di Saint-Clare con tutte le squisitezze e gli splendori, la bionda testa d’Evangelina con gli occhi celesti, il fiero, gioviale, bello, sconsiderato in apparenza, ma sempre buono Saint-Clare, le ore della quiete e dei brevi ozi concessi, tutto, tutto egli ha perduto; e invece, che gli rimane?
      È questa una delle più crudeli piaghe della schiavitù: il negro che simpatizza per natura e facilmente assimila, dopo avere acquistato in una ragguardevole famiglia i gusti e i sentimenti che ne formano l’atmosfera, è esposto a divenire la proprietà dei più abietti e più brutali fra gli uomini, nel modo stesso che una sedia o una tavola, dopo avere ornato un elegante salotto, passa, malconcia e logora, a star presso il banco di un’ignobile taverna. La gran differenza è che la tavola e la sedia non hanno sentimento alcuno, e che l’uomo sente, poiché lo stesso atto legale in virtù di cui «è preso, aggiudicato e venduto come proprietà personale» non può togliergli la sua anima col suo piccolo mondo di memorie, di speranze, di amori, di timori, di desiderii.
      Simone Legrée, padrone di Tom, aveva comprato alla Nuova Orléans otto schiavi e li aveva tratti seco, bene ammanettati ed incatenati a due a due, nel legno a vapore il Pirata che era sulle mosse per risalire verso la sorgente del Fiume Rosso.


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La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe
Editore Salani Firenze
1930 pagine 624

   





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