— Oh! Un bigotto, se non erro! Sei membro di una chiesa, eh?
— Sì, padrone, — rispose Tom con fermezza.
— Ebbene, io te lo leverò presto dal capo. Non intendo di avere in casa negri che vociferano, che cantano, che pregano; bada di ricordartene. Ascolta bene quello che ti dico: — soggiunse battendo la terra col piede e fissando Tom con quei suoi occhi pieni di malignità — io sono adesso la tua chiesa, mi capisci? Bisogna che tu faccia in tutto e per tutto a modo mio. —
C’era qualche cosa nell’anima del negro che rispondeva no! E come se una voce misteriosa gliele avesse ripetute all’orecchio, egli udì nel proprio cuore le seguenti parole di un volume antico, che spesso Evangelina gli aveva lette: Non temere, perché io Vi riscattai, e ti chiamai col mio nome. Tu sei mio!
Ma Simone Legrée non udì quella voce, né l’udrà mai. Guardò solo per un istante il volto abbassato di Tom, poi gli volse le spalle e passò oltre. Prese la cassa di Tom, che conteneva una pulita e abbondante provvista di roba, la collocò sulla parte anteriore del piroscafo, e, pezzo per pezzo, vendé ogni cosa alla gente che v’era imbarcata, con gran risa e motteggi sui negri che fanno la scimmia ai gentlemen; la cassa, rimasta alfine vuota, fu parimente messa all’incanto. Era molto divertente, dicevano, vedere come Tom seguisse con lo sguardo ciascun capo della roba sua mentre passava nelle mani di questo o di quello. La vendita della cassa fu anche più sollazzevole, e diede occasione a un gran numero di barzellette o di motti.
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