— Ma dimmi: speri che una tanta grazia ci verrà concessa? Vedremo la fine di questi lunghi anni di miseria? Saremo liberi?
— Ne ho certezza, Giorgio, — disse Elisa guardando in su, mentre lacrime di speranza e di letizia bagnavano le sue lunghe e nere ciglia. — Sento in me che oggi stesso Iddio ci deve liberare dalla schiavitù. —
Si aprì l’uscio, e una donna rispettabile e matura d’anni entrò, conducendo Enrichetto vestito da fanciulla.
— Oh, che bella bambina! — esclamò Elisa, voltandolo e rivoltandolo. — Le porremo nome Enrichetta. —
Il fanciullo stette gravemente a guardare sua madre nel nuovo e strano suo vestire; la osservava in silenzio, e tratto tratto sospirava.
— Enrichetto non riconosci più la mamma? — disse Elisa tendendogli le braccia.
Il fanciullo si strinse timidamente alla donna che lo aveva condotto.
— Via, Elisa! Perché vuoi fargli delle carezze, mentre sai che bisogna staccarlo da te?
— Sono pazza, è vero! Ma soffro troppo nel doverci, benché momentaneamente, separare. Suvvia, dunque!... Qua il mio mantello, Giorgio; insegnami come lo portano gli uomini.
— Si deve portar così, — disse Giorgio, mettendoselo sopra le spalle.
— Così, eh? — fece Elisa, imitando la mossa. — Ora bisognerà ch’io batta bene il tacco e muova passi più lunghi, prendendo un’aria insolente.
— No, no, — disse Giorgio — non ti ci provare. Sii sempre un giovane modesto; ti sarà più facile rappresentar bene un tal carattere.
— E questi guanti? Misericordia! Le mie mani ci si perdono.
— Ti consiglio di non cavarli mai; la tua mano delicata basterebbe a rovinarci tutti, — disse Giorgio.
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