Era cosa insolita in quei luoghi.
Egli si fermò ad ascoltare.
Una voce melodiosa di tenore cantava:
«Quand’io leggo la mia ricompensaScritta a note di fiamma lassù,
Quella tema che in cor mi s’addensaCaccio, e l’occhio non lacrima più.
Si scateni il furore del mondo,
E l’Inferno mi vibri il suo stral;
Non di satana all’ire m’ascondo,
E derido ogni rabbia mortal.
Sovra me qual tempesta infinitaPiova orrenda tristezza e dolor;
Purch’io trovi il conforto e la vitaNel mio Dio, nel mio Cielo d’amor»
«Ah, ah!» esclamò Legrée tra sé. «Ecco a che cosa pensa costui! Oh, come io detesto quei maledetti inni metodistici!» — Prendi, vecchio negro: — esclamò poi, lanciandosi d’improvviso sopra Tom con la frusta alzata — io t’insegnerò a fare un tale schiamazzo quando già dovresti essere a dormire. Chiudi la tua vecchia ganascia, e torna subito al tuo covo.
— Sì, padrone, — rispose Tom con lieto viso, e si alzò per andar via.
Legrée, esasperato all’evidente felicità della quale il negro godeva, gli tenne dietro, e si diede a percuotergli con la sua frusta il dorso e le spalle.
— Prendi su, cane, e vediamo se dopo queste continuerai ad essere così allegro! —
Ma quelle percosse non cadevano ormai che sul corpo, e non più, come prima, sul cuore.
Tom restò sommesso interamente, eppure Legrée vedeva bene che, in un modo o nell’altro, il suo potere sopra il suo schiavo era svanito.
Quando Tom fu rientrato nella povera stanza, ed il suo padrone ebbe voltato il cavallo, uno di quei lampi, da cui è talvolta rischiarata anche l’anima più malvagia, attraversò la coscienza di Legrée.
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