— Olà, Cassy! Che vento spira oggi?
— Nulla; solamente voglio avere un’altra camera, — rispose Cassy burberamente.
— E perché, di grazia?
— Perché mi aggrada così.
— Al diavolo le pazze! Ma se ne può sapere la cagione?
— Bramo poter qualche volta dormire.
— Oh! Che cosa te lo impedisce?
— Non occorre che ve lo dica, — rispose con brusco accento la donna.
— Voglio saperlo, invece! — urlò Legrée.
— Cose da nulla. A voi non darebbero fastidio. Odo lunghi gemiti, colpi, e un rotolar di non so che sul pavimento della soffitta, da mezzanotte fino a giorno.
— Gente nella soffitta? — fece Legrée con un certo qual turbamento, ma sforzandosi a, ridere. — Chi sono, Cassy? —
La donna alzò i vivi suoi occhi e li fissò in quelli di Legrée con un’espressione che lo fece rabbrividire; poi soggiunse:
— Davvero, Simone, chi mai sarà? Mi fareste gran piacere a dirmelo. Credo che voi lo sappiate.
Legrée, bestemmiando, fece l’atto di assestarle una frustata; ella balzò da una parte e corse all’uscio; indi volgendosi dal limitare, gli disse:
— Dormite un po’ in quella camera, e saprete come va la faccenda. Seguite il mio consiglio!
E detto ciò, serrò subito l’uscio a chiave.
Legrée, imprecando e strepitando, minacciava di sfondar l’uscio; ma pensandoci meglio, se n’andò con aria inquieta nel salotto. Cassy comprese che il colpo era riuscito, e da quell’ora non ristette dal lavorare con infinita destrezza per compier l’opera incominciata.
Nelle fenditure del tetto essa aveva piantato diversi colli di vecchie bottiglie, in modo che al più leggero soffiar del vento ne usciva un gemito doloroso e lugubre, e quando il vento rinforzava, cotesto gemere diveniva un grido acuto che ad orecchie credule e superstiziose poteva sembrare un urlo di dolore e di disperazione.
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Cassy Cassy Legrée Legrée Cassy Legrée Simone
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