Ad ogni modo abbiamo buone ragioni per credere che, nelle ore consacrate in ogni tempo agli spiriti, una gran figura vestita di bianco si aggirava intorno agli appartamenti di Legrée, passava per gli usci, spariva tratto tratto, e ricomparendo saliva alla soffitta fatale; sappiamo egualmente che la mattina si trovavano le porte chiuse a chiave come alla sera.
Legrée cioncava perciò più acquavite del solito, portava alta la testa, e durante il giorno tempestava e bestemmiava con maggior fracasso di prima; ma ciò nonostante egli faceva cattivi sogni, e le visioni del suo cervello erano sempre più tetre. La notte dopo che fu portato via il cadavere di Tom, Legrée si recò alla città vicina, e quivi si abbandonò interamente alla crapula. Tornò tardi alla piantagione, e, stanco dallo stravizio, chiuse attentamente la porta e andò a coricarsi.
Il malvagio può soffocare quanto vuole i suoi rimorsi: ma la coscienza è per lui un’ospite inquieta e formidabile. Chi può comprendere i dubbi e le paure che lo assediano? E i suoi forse, e quei brividi, quei timori ch’egli non può vincere, come non può annientare la sua propria eternità? Stolto colui che chiude a chiave l’uscio della sua camera per impedire l’ingresso agli spiriti, mentre ne porta uno nel cuore col quale non osa trovarsi solo... uno spirito la cui voce non può essere mai soffocata, e che risuona sempre come la tromba dell’estremo Giudizio!
Legrée aveva girato la chiave di dentro e posto una sedia contro l’uscio della camera; poi, collocata una lampada al suo capezzale, vi pose vicino le pistole e visitò le imposte e i ferri delle finestre.
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