La signora Shelby le tenne dietro quietamente, le prese una mano, la fece sedere e le si assise vicino.
— Mia povera e buona Cloe! — diss’ella. Cloe appoggiò il capo sulla spalla della sua padrona, e singhiozzando forte rispose:
— Ah, signora, scusatemi! Il mio cuore è spezzato: non dico altro.
— Lo so, lo so! — rispose dolorosamente la signora Shelby, le cui lacrime cadevano in abbondanza. — Lo so, né io posso guarirlo; Gesù solo lo può. Egli è quello che guarisce i cuori spezzati e ne rimargina col tempo ogni ferita. —
Vi furono alcuni istanti di silenzio; tutti piangevano.
Finalmente Giorgio, sedutosi anch’egli vicino alla desolata, le prese la mano, le narrò con semplicità commovente la santa e gloriosa morte di suo marito, e le ripeté il suo ultimo messaggio d’amore.
Un mese circa era scorso da che queste cose erano avvenute, quando una mattina tutti gli schiavi di Shelby erano radunati nel vestibolo della casa per udire alcune poche parole del loro giovane padrone.
Con gran maraviglia di tutti, egli apparve fra loro tenendo nelle mani un fascio di carte, e consegnò a ciascuno d’essi una lettera di emancipazione, dopo ch’egli l’ebbe letta ad alta voce, fra le lacrime, i singhiozzi e le acclamazioni generali.
Molti di loro nondimeno si accalcarono intorno a lui, pregandolo vivamente di non licenziarli, e gli stendevano intanto con aria supplichevole l’atto di emancipazione.
— Noi non desideriamo di essere più liberi di quel che siamo. Nulla ci manca. Non vogliamo abbandonare la casa, il padroncino, la padrona e tutto il resto.
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