Ma quella sera godette. Angiolina lo fece attendere oltre mezz'ora, un secolo. Gli parve di sentire sola ira, un'ira impotente che aumentava l'odio ch'egli diceva di sentire per lei. Pensava di picchiarla quando sarebbe venuta. Non v'erano scuse possibili perché ella stessa aveva detto che quel giorno non andava a lavorare e che perciò poteva essere puntuale. Non era anzi per la certezza di non dover ritardare, ch'ella non aveva voluto accettare l'impegno per la sera prima? Ed ora lo aveva fatto aspettare prima un giorno intero e poi tanto, tanto tempo.
Ma quando ella arrivò, egli, che già aveva disperato di vederla, fu sorpreso della propria fortuna. Le mormorò sulle labbra e nel collo delle parole di rimprovero a cui ella neppure rispose perché avevano il suono di una preghiera, di una adorazione. Nella penombra la stanza della vedova Paracci divenne un tempio. Per lungo tempo nessuna parola turbò il sogno. Angiolina dava certo più di quanto aveva promesso. Ella aveva disciolti gli abbondanti capelli, ed egli si ritrovò con la testa appoggiata su un guanciale d'oro. Come un bambino egli vi appoggiò il volto per fiutarne il colore. Ella era un'amante compiacente e – in quel letto egli non sapeva lagnarsene – indovinava con un'intelligenza affinatissima i suoi desiderî. Là tutto diveniva soddisfazione e godimento.
Appena più tardi il ricordo di quella scena gli fece digrignare i denti dall'ira. La passione l'aveva liberato per un istante dal doloroso abito dell'osservatore, ma non gli aveva impedito d'imprimersi nella memoria ogni singolo particolare di quella scena.
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Senilità
di Italo Svevo (Ettore Schmitz)
pagine 258 |
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Paracci
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