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      Se si metteva a studiare, deposto il libro, si sentiva la mente stanca, una strana sensazione alla fronte come se il volume di dentro avesse voluto ingrossare, allargare il contenente. Si sentiva calmo precisamente come se si fosse stancato correndo; vedeva lucidamente e i sogni o erano voluti o mancavano. Ben presto anche il tempo dedicato alle passeggiate venne assorbito dallo studio; occorreva meno tempo per calmarsi con lo studio che con le corse. Una sola ora passata su qualche difficile opera critica lo quietava per un'intiera giornata. Inoltre, in poco tempo, gli era venuta l'ambizione e lo studio era divenuto il mezzo a soddisfarla. Le cieche obbedienze a Sanneo, le sgridate che giornalmente gli toccava sopportare, lo avvilivano; lo studio era una reazione a quest'avvilimento. Dinanzi ad un libro pensato faceva sogni da megalomane, e non per la natura del suo cervello, ma in seguito alle circostanze; si trovava ad un estremo, si sognava nell'altro.
      Ogni istante di tempo fuori di ufficio od anche all'ufficio ove in un ripostiglio teneva alcuni libri, lo dedicava alla lettura. Erano in generale letture serie di critica o di filosofia, perché di poesia e di arte stancavano meno. Scriveva, ma poco; il suo stile, poco solido ancora, la parola impropria che diceva di più o di meno e che non colpiva mai il centro, non lo soddisfaceva. Credeva che lo studio lo avrebbe migliorato. Non aveva fretta, e quel poco che faceva era a compimento di un orario che s'era prefisso per il suo lavoro volontario.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





Sanneo