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      — Molto ammalata? — chiese a Santo. Anche con costui bisognava fingere.
      — Oh! sa! le donne! — fece Santo con l'irriverenza che gli era propria quando parlava dei suoi padroni dietro alle loro spalle.
      Non era ammalata! In quel tinello completamente illuminato come nelle serate di ricevimento, forse ella sedeva accanto a Fumigi, il quale gustava a pieno della gioia di quelle dolci espansioni, quella calma del possesso non più contrastato che Alfonso credeva fosse la suprema delle felicità.
      Santo già gli aveva voltato le spalle. Fino ad allora e dacché lo aveva veduto in casa Maller, Santo lo aveva trattato con servilità anche seccante. Il suo disprezzo era segno evidente che lo considerava decaduto. Alfonso lo seguì per alcuni passi:
      — La prego di dire alla signorina Annetta ch'io sono stato qui e che mi dispiacque molto di aver udito della sua indisposizione.
      Scese le scale guardando dinanzi a sé e senza degnarsi di corrispondere al saluto che Santo pur gli fece. Il suo pensiero era ancora sempre rivolto a quei due che soli nel tinello forse si baciavano, ma finché non giunse sulla via camminò impettito badando di non lasciar trasparire neppure dal suo volto qualche cosa dei sentimenti che lo agitavano. Era possibile che in quella casa qualcuno lo osservasse per gioire del suo dolore.
      Era un'idea sciocca; nessuno di lui più si occupava neppure per fargli del male. Piovigginava ed egli teneva l'ombrello chiuso in mano. Era irritato perché pensava al modo col quale avrebbe dovuto raccontare il fatto a Miceni e andava immaginando l'ironia atroce quanto facile di costui.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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