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      Finse di non credere che la sua presenza in città fosse tanto necessaria come lo asseriva Francesca.
      «Annetta, come me lo conferma nella sua lettera, mi ama. Perché avrebbe da abbandonarmi? Se resto qui non faccio che il mio dovere.»
      Dopo spedita la lettera si sentì sollevato. Era un sollievo, e se anche in minore grado, simile a quello provato alla partenza dalla città. Ritornava al villaggio dopo di essere stato ripiombato in quegl'intrighi, e non giungeva a rubargli interamente la gioia di esserne salvo la vista della faccia cadaverica della madre.
      Alla sera, in un istante di pace dopo una giornata di terribili sofferenze, ella gli chiese:
      — Hai scritto alla tua amorosa? Non negarlo, perché sarebbe male che così non fosse.
      Ma negli occhi semispenti le passò un lampo di gelosia.
      Egli non negò. Conoscendosi uomo dai rimpianti amari e dai rimorsi, s'era dato cura in tutti quei giorni di portarsi in modo da non avere a rimproverarsi né una parola né un cenno brusco verso la moribonda. Bisognava dunque dimostrarsi confidente, toglierla alla curiosità e non dirle bugie perché sarebbe potuto dolergli anche di quelle. Non le disse l'intera verità per riguardo al segreto altrui o almeno così si scusò con se stesso. Le raccontò che amava una fanciulla, ma che l'aveva scoperta tanto civetta e leggera che voleva togliersela dal cuore, ciò che gli doveva riuscire facilmente del resto.
      — È la signorina Lanucci? — chiese la signora Carolina con un sorriso forzato.
      — No! — rispose serio come in confessionale, — è una ragazza ricca che tu non conosci.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





Francesca Lanucci Carolina