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      Giacomo raccontò ad Alfonso con esattezza e sincerità come tutta la faccenda fosse proceduta. Alfonso lo aveva preso per il mento e lo guardava serio negli occhi ancora infantili.
      — Ma tu hai portato via il posto ad Antonio?
      — Io? — gridò Giacomo con una sghignazzata di persona soddisfatta, — quel poltrone non faceva nulla. È orbo e non sa stare sulle gambe; non poteva quindi bastare al signor Cellani.
      Alfonso lo lasciò, sorpreso per quella mancanza di pietà per il vinto:
      — Non gli lascerei toccare il mio collo se in gola avessi dell'oro.
      Si sentiva tranquillo e contento di sé ora che sapeva quello che a lui mancava in confronto dei suoi simili. Non era lui l'inferiore come per tanto tempo aveva creduto. Egli poteva giudicare gli altri dall'alto, serenamente, perché si era trovato anche lui in quella lotta e sapeva che cosa fosse. Provava una compassione commossa tanto per i vinti quanto per i vincitori.
      Era tanto convinto della giustezza dei proprii sentimenti che a volte gli pareva cosa facile convincer altri.
      Una sera si trovò solo in tinello con Lucia. Quella era veramente una poveretta che abbisognava di consolazione. Il dolore le aveva mutato la fisonomia e le abitudini. Non avendo più continuamente rivolto il pensiero a rattoppare e abbellire i suoi vestiti, le misere stoffe tradivano i danni causati dal tempo i quali prima erano stati abilmente mascherati, e sul corpo magro e poco elegante pendeva la gonna come da un attaccapanni e la vita non arrivava mai a mostrare la forma, per quanto magra non disgraziata.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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