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      — Come sta?
      Era evidente che rinunziava a riconoscerlo; aveva perduto la memoria e non la cortesia.
      — Bene, grazie, e lei? — chiese Alfonso commosso.
      — Bene... bene.
      Poi masticò delle parole che non si comprendevano accennando al giornale; voleva raccontare quello che aveva letto. Quantunque i due giovani non facessero motto, Fumigi comprese che non lo si capiva. Ripeté gridando una frase, poi l'abbreviò per poter dare maggior cura alla pronunzia. Infine rinunziò al suo pensiero e si accontentò di dire un nome scandendone le sillabe. Era il nome di un uomo politico che mesi prima aveva fatto parlare molto di sé. Ripiombò nella sua lettura dopo di aver esitato un istante e guardato i suoi interlocutori con quello sguardo di domanda che ha il cane per il padrone che gli proibisca di toccare un pezzo di carne.
      — Ed è sempre così, mai violento? — chiese Alfonso a bassa voce.
      — Può parlare ad alta voce, — gli rispose Prarchi, e lo fece avvicinare.
      Leggendo, Fumigi declamava fermandosi con compiacenza a certe parole dal suono più forte. Poi parve adirarsi, gridò, masticando le sillabe e ripetendole.
      Alfonso capitò fra la luce e il giornale e l'ammalato alzò il capo dopo un istante di sorpresa al vedere quell'ombra proiettarsi sulla carta; quando l'ombra scomparve si acquietò di nuovo al suo lavoro.
      Era entrato qualcuno nella stanza e prima di udirne la voce Alfonso sentì ch'era Macario. Nell'imbarazzo volle ritardare tale incontro e si mise a guardare Fumigi con attenzione intensa fingendo di non essersi accorto di Macario neppure quando lo udì salutare Prarchi.


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Una vita
di Italo Svevo
pagine 444

   





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