«Ebbi il dono della sofferenza e divenni poeta», disse Ibsen.
Lo stesso si può dire di Giulio Tanini che a traverso sofferenze d'ogni specie sviluppò il suo fervido ingegno, lasciando dovunque una fiera impronta della sua originalità.
Gli sarebbe stato facile divenire ricco, trascorrere l'esistenza fra gli agi e gli onori, cingere il capo, dalla superba fronte spaziosa, dell'aureola della gloria. Non volle.
Era troppo onestamente sdegnoso di servilismo adulatore e di corruzione comunque. La sua inflessibile dirittura che gli faceva ritenere tutte le transazioni della coscienza a danno dell'individuo e della collettività, gli dimostrava il guasto inquinatore dell'arrivismo venale sotto la brillante vernice della nostra civiltà così iperbolicamente vantata e decantata dai fossili conservatori.
Quindi, all'apposto di farsi un gonfio e tronfio satellite dei potenti, di procurarsi con loiolesca grazia insinuante, le protezioni più proficue, flagellò senza posa tutte le ingiustizie, colpendo a guisa del chirurgo che scandaglia col bisturi la piaga facendone schizzare il micidiale pus, vieppiù là dove si addensava il putridume larvato da decrepiti convenzionalismi, gli inganni e la menzogna.
Poniamo quest'Uomo che viveva da asceta nella sua solitudine di Apparizione, che conobbe sereno e immutabile tutti i disagi e tutte le rinunzie, che vide nel suo irrequieto pellegrinaggio a traverso il mondo i proletari in folla sui mercati internazionali del lavoro e constatò come le più ingrate fatiche fossero sempre riservate ai più poveri ed ai più umili, che volontariamente si era privato di qualsiasi lusso e comodità, ritenendo che il superfluo degli uni fosse a detrimento di chi è privo del necessario, poniamolo, ripeto, a confronto dell'odierno egoismo imperante.
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