Già prima di scorgere le prime case della città venivano incontro migliaia di cittadini, con bande e fanfare e fiaccole se era di notte; carrozze e veicoli d'ogni genere; signore e popolane, maestri e ragazzi, funzionari pubblici e preti; e s'entrava in città attraversando strade le cui case e palazzi erano letteralmente tappezzate di bandiere. Che frenesia: tutti volevano, si disputavano i soldati e gli ufficiali; era un dare e pigliare di biglietti d'alloggio, un promettere la visita qui, il desinare là; e abbracci ed effusioni che oggi, a distanza di quasi settant'anni, mi fanno tremare il cuore e la penna che scrive e gli occhi mi si velano se ricordo la lieta beltà di mia madre, che pareva sognare in mezzo a quel turbine entro cui si trovava ravvolta.
Povera mamma: non sarebbe trascorso un anno che ella dormirebbe per sempre sotto la gloriosa terra lombarda, vittima di una vita rude e faticosa a cui gentil fiore di Toscana, non aveva potuto resistere.
Proseguimmo per l'alta Lombardia: Como, Varese, Brescia, il Veneto. Io di tutto questo non ricordo che un gran tramescolio di tende piccole e grandi; di gran fasci di fucili, improvvisi rulli di tamburo, e una fosca mattina (che un gran nebbione era sempre intorno all'accampamento), il reggimento partì, e noi si rimase nell'ambulanza fra la nebbiona.
Verso sera si riformò il reggimento, ma, com'era ridotto: i poveri soldati e gli ufficiali, sergenti, forieri, tenenti, capitani, maggiori, il colonnello, che era il Cadolini, parevano essere stati nel fango; fradici e melmosi, coi kepì rotti, i sacchi sfasciati; non si sentì in tutto il giorno che un cupo rombo di cannone.
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