Ecco fatto.
Finalmente, si lasciò i parenti e si partì anche da Livorno: tutti svegli, in sul far del giorno, nel porto di Napoli. O bello, o nobile, o grandioso porto, o Vesuvio, o formicolii di navicelli, o come mi tornate a mente, in quel bel mattino puro e sereno della mia dolce infanzia! Specie due cose mi rimasero fotografate nel pensiero: il pennacchiolo bianco bianco e soffice soffice che mi vedevo su su montare in cielo dal cocuzzolo del gran Vulcano; e certi cocomeri grossi e gialli e tutta carne bianca dentro che ballonzolavano su tutta quell'acqua verdastra e carezzevole sotto la pancia del vapore. Avevo ficcato la testa fuori dell'occhio di bove o finestrino, che era proprio a livello della mia cuccetta e stavo estatico ed incantato a guardare quel trionfo di luce e di musica che si spiegava ai miei occhi di piccolo sognatore. Ma non erano cocomeri; erano cedri, e ce n'erano a centinaia tirati a quel modo, chi sa perchè?
Non vedevo l'ora d'andare a terra! Avevo sentito magnificar tanto la città di Napoli da tutti quegli ufficiali e dai tanti soldati napoletani che già erano sparsi nelle file del nostro reggimento; che non toccavo il ciel col dito, per andarci anch'io a correre le belle strade e quella famosa via Toledo di cui se ne dicevano mirabilia.
Difatti alle 9 si scese; mio padre, io, il maggiore Ceccherini con la moglie, la quale mi teneva sempre con sè, ogni poco dicendomi tante cosine affettuose della mia povera mamma, che ora era, diceva lei in Paradiso! Eppure, piccoletto com'ero ci avevo i miei dubbi; sentivo come una impressione strana a sentir quel nome di Paradiso, e di Purgatorio e d'Inferno, uguale a quell'altro della Befana, quando, a Lucca, al ritorno della Sicilia e che mio padre mi lasciò affatto, trovavo la calza piena di chicche e di centesimini, e dicevano che tutta quella robina ce l'era venuta a mettere la vecchia Befanona.
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