Si girandolò per Napoli in certe carrozzelle che parevano legate con lo spago e stavano ritte per l'appunto; mi meraviglio anche oggi quando ripenso a quella giornata che si volava via a corsa sfrenata su un trespolo sgangherato che ogni poco minacciava di andare a gamb'all'aria. E il cavallo! Numi del cielo, pareva proprio (per rifare una frase fatta) quello dell'Apocalisse; e via, povera bestia, spunzecchiata e frustata a morte, ubbidiente alla voce e alla lingua del padrone che a forza di oh!, eh!, uh!, lo mandava in rovina per quelle bellissime e popolatissime strade, che a malapena que' cafoni facevano a tempo a scansarci; la carrozzella sosteneva il cavallo come un macchinone sconquassato che si tenga su a forza di biette.
Se si fosse rotto un finimento (ed erano tutti rabberciati e cuciti con funicella) io, che glorioso e trionfante me ne stavo in serpe accanto al vetturino, oggi, ne sono sicuro, non sarei qui con la penna fra le dita a raccontarvi la mia prima visita alla bella Partenope.
A mezzogiorno s'andò a desinare: eccoci dinanzi a un bellissimo tavolino in un albergo sul mare, che non ricordo più come si chiamava: «maccheroni; vengano maccheroni» - urlavano dieci bocche affamate di dieci bei giovanotti, ufficiali e camerati di mio padre. Vengono i maccheroni, in tre grandi vassoi, fumanti e rossi di pomodoro: tutti si staccano dalle finestre; ognuno corre a prendersi un posto; giù maccheroni a bizzeffe.... ma, tutti cercano le forchette; non ci sono forchette - urla spietate, grida di accorr'uomo: si presenta l'oste, un omino grosso grosso e grasso grasso tozzo e basso che pareva un misirizzi, con un pancione che gli ballonzolava sulle gambe: era bianco come un morto, poveraccio, e non capiva cosa volessero l'eccellenze: «Eccellenze furchette nu ce stanno; mò le mandò cattà».
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