Povero oste, cosa non gli fu detto dai miei bei giovinotti! Napoletani porci; camorristi; che non sapete nemmeno mangiare; ma ora siamo venuti noi e vi faremo vedere se Franceschiello è un maiale; e giù contro Franceschiello ogni ira dei. Il povero tàngano non faceva che piangere e gridava «gnor sì» «gnor sì» che pareva che starnutasse.
Vennero le forchette; erano di stagno; e come dio volle la baraonda quetò come per incanto.
Povera Napoli, tu non avevi certamente colpa se a quel disgraziato di cafone non era arrivato, sotto i Borboni, al progresso delle forchette (c'erano bensì le forche!); e poi eravamo caduti alla Marinella, a basso puorto; ma insomma tal era nel '60 lo stato della vita civile di quell'egregio popolo che ha dato un Galuppi, un Semmola, un Imbriani, un Giordano, un Palmieri, un Puoti, un De Sanctis, un Bovio, un Labriola e, negli antichi, un Vico e tanti e tanti altri filosofi di prim'ordine in ogni parte dello scibile della nostra latinità.
Fatta la pace (dopo saziate le bramose canne) tutti gli Ufficiali vollero risarcire, in certo qual modo, il pover'oste, regalandogli un bel marengo: l'oste piangeva e rideva, ma afferrata la moneta d'oro guardava quei venti franchi con occhio diverso (me n'accorsi) da quando si scusava. C'era in quella sguardo un misto di furberia, grottesca e curiosa, più voltata verso la straffottenza che la gratitudine: napoletano era, e, ci gioco l'osso del collo, napoletano rimase per tutto il resto della sua vita, senza o col simbolo della civiltà, le forchette di stagno!
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