Si lasciò finalmente anche Messina, e sur un grosso vapore, di cui non ricordo il nome, il reggimento sbarcò a Genova; da Genova un'altra volta in Lombardia e di presidio in presidio, prima a Parma e poi a Piacenza: a Ravenna si stette tre mesi e di quel tempo conservo il ritratto che qui riproduco.
Dal '63 al '65 non ricordo che poche cose avvenutemi in quella monotonia alternata dagli esercizi militari e le marce. Ricordo soltanto che non stavamo più in quartiere; che io ero divenuto un pò discolo e impertinente e che la mia vivacità e l'impertinenza mi furono cagione di due gravissimi mali: mio padre teneva certi barattoli di polvere in uno sgabuzzino incavato in un muro di camera, a cui mancava la chiave. Solo in casa mi divertivo a fare dei monticini di polvere, una piramide terminata in punta che bagnavo con la saliva, e poi con un zolfanello (i cerini non erano ancora inventati) gli davo foco. Or'avvenne che una mattina, un gran mucchio di polvere non voleva far la fiammata e io l'andavo stuzzicando invelenito con la fiammolina accesa: quando tutt'a un tratto prese fuoco davvero, e m'investi la faccia e la mano. Fortunatamente il viso era lontano, ma la mano rimase bruciata e nera come un pezzo di carbone.
Ero solo, l'ordinanza tornò tardi, ed io soffrii le pene dell'inferno. Quando il povero soldato mi vide conciato a quel modo che disperazione, che grida, che pianti! Cosa dirà suo padre; oimè, suo padre mi ammazza dicerto, oimè oimè.... Intanto io pativo e non sapevamo cosa fare alla mia mano abbruciacchiata; fortuna volle che era l'ora del rancio e i noti colpi di batacchio all'uscio di casa, pun pun, annunziarono la sempre desiderata, ma in quel momento quasi inutile bobba; corse il soldato ad aprire e venne su un soldato calabrese che si chiamava Lacuma; il mio buon Cesare gli racconta il fatto; «niente paura! dice il bravo Lacuma; vai a comprare un limone e del sale e porta della carta straccia azzurra di quella che usano incartarci lo zucchero: vola il buon Cesare e presto presto in una scodella, Lacuma ci versa agro di limone e sale; poi tuffandovi in quella salumoia della cartasuga, il calabrese me l'applicò sulla mano che era una macchia di sangue, filando le goccie di quello dalle spaccature delle dita, come un cencio bagnato.
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