Sentirà il lettore il fine di tutto questo; per ora gli dirò che io ero un vero asinello; non sapevo nè leggere, nè scrivere; non ero andato ancora a scuola perchè.... mio padre non mi ci aveva messo. Ero quindi un ragazzo di dodici anni incolto e duro; mi frullavano nel cervello visioni e sogni che me li andavo assaporando inconsciamente, sempre solo, chi lo sa cosa pensavo? cosa almanaccavo nella mia anima vergine e sortita malinconica e sognatrice di natura?
Pagai, in quel tempo, (e pagai vergognosamente e terribilmente) i primi bestiali istinti di quel male che perseguita tutti i ragazzi: il furto. Doventai ladro! ladro, capite, ladro matricolato e ora dirò come fui guarito di siffatto gravissimo male che molti poi portano, durante la vita loro, sempre con sè, e non si contentano più di rubicchiare nespole, mele, dolci o soldarelli e gingilli; ma s'attaccano a fogli di banca e poi svaligiano l'umanità o fanno chiodi che non pagano più.
C'era, vicino alla caserma, la casuccia (specie di Capannone) della buona Vivandiera: costei ci teneva ogni specie di frutta fresca e secca, e sur un tal tavolaccione sgangherato, svanziche, baiocconi, soldarelli e certi calamaini tanto belli agli occhi miei; e tanto carini che mi tenevano estasiato tutto il giorno a guardarli. Le frutta e le chicche pareva che dicessero «mangiami, mangiami»; i calamai e i lapissucci; «pigliami, pigliami» e io, poveraccio, mangiavo e pigliavo, intascavo soldi e m'azzardai anche a portar via una svanzica.
«Tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino» ed ecco come io ce lo lasciai.
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Capannone Vivandiera
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