Una mattina (era d'aprile) alle 4 mi sveglia Cesare e mi fa vestire di tutto punto. Mi porta in camera dal babbo che era già desto; in terra c'era un sacchetto, il mio zaino, la mia robina. Domando cos'è, dove si va: poche parole e così accipigliato come non l'avevo visto mai mi dice: Giacchè sei un figlio degenere, andrai dalla nonna, fra le sottane delle femmine e fra preti; così imparerai a vivere a tue spese.
Cesare era in un mar di lacrime; io piangevo e strepitavo che non volevo lasciare il mio babbo; ma sì, era sonata l'ora del destino, e via, giù dalle scale verso la ferrovia.
M'insacca con un biglietto in mano in un vagone (che era di terza perchè me lo ricordai dopo che era dipinto di giallo e il sedile era freddo freddo e duro duro), mi dà un bacio; Cesare mi abbraccia mezzo morto, fischia il vapore e io mi ritrovo in mezzo a una serqua di villani, viaggiando... verso dove?
Chi lo sa!
CAPITOLO VII.
Ero rimasto intontito. La natura, avendomi dotato di un temperamento, in apparenza, freddo e insensibile, non era stata capace di destare in me quella tempesta che gli affetti infantili sommuove e sprigiona in altri bambini.
Io mi ritrovai come inpacchettato in mezzo a una ventina di poveri contadini, che nemmeno loro sapevano spiegarsi l'apparizione di un giovinetto, vestito da soldato, e viaggiando alle 4 del mattino, in una terza classe fredda, attraverso una campagna coperta di neve.
Quando il treno sostò a un paesetto e la guardia chiamò «Sasso», mi ricordai che il mio buon Cesare era di lì appunto; e allora piansi; piansi d'aver lasciato l'unica persona che avessi al mondo, che aveva avuto per me le più affettuose cure, le intelligenze muliebri di una mamma, l'affetto di un padre.
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