CAPITOLO XV.
Non posso ritornare con la memoria a que' bellissimi tempi di Viareggio, senza sentire un brivido corrermi per le ossa: fui a un pelo di uccidere un giovinetto compagno importuno de' nostri giochi. Era figlio dell'avvocato Francesco Papeschi di Pisa notaro: padre e figlio erano due spilungoni secchi e ossuti come canne; avevano i capelli gialli come lo zafferano; il vecchio vestiva una specie di soprabitone nero nero e lungo lungo, che gli scopettava le zampe; teneva il collo fasciato con un corvattone alto e nero; il figlio aveva le mani noccolute e serpigginose: dicesi che codesti segni denotano origine campagnola; credo infatti che il padre fosse un villano creato calzato e vestito; e da villano erano i modi e il camminare. Pallino (come per scherno noi chiamavamo il figlio) era un prepotentuolo smargiasso che aizzava tutti: s'intrometteva fra noi senz'essere invitato, musava alle inferriate delle finestre, metteva bocca nelle nostre conversazioni, s'impancava a dottore e a maestro; insomma l'avevamo tutti a noia come il fumo agli occhi, per quella benedetta cagione che al mondo tutti abbiamo qualcosa che, attira e respinge e ci fa sentire le simpatie e l'antipatie originando certi sentimenti curiosi e ignoti che hanno del misterioso. E noi tutti per quel ragazzo sentivamo un tirati in là, che non ci potevamo spiegare.
Una sera, al crepuscolo, stavamo giocando al pallone sulla piazza Paolina, e avevamo il bracciale a punte: diverse volte costui era entrato in mezzo a noi, a sbaragliarci il gioco, beffando chi perdeva, intrampolando fra' nostri piedi, dandoci degli spintoni per farci cadere: più volte gli avevamo detto, un pò con le buone un pò con le cattive, che se n'andasse, che ci lasciasse in pace; pareva che lo facesse apposta.
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