Il padre stava muto e impietrito sur una seggiola, la mamma e la zia mi parlarono e dissero cose giuste e savie: mi scagionarono dando la colpa a lui; ci compatimmo teneramente. Mi tornavano a mente i versi del Poeta:
- «E quale è quei che suo dannaggio sogna,
Che sognando desidera sognare,
Sì che quel ch'è, come non fosse, assogna;
Tal mi fec'io, non potendo parlare;
Che disiava scusarmi, e scusavaMe tuttavia, e nol mi credea fare.
Nei dieci minuti che rimasi al capezzale del poveraccio, il padre camminò sempre in su e in giù, tutto ingrugnato e nero; mai mi rivolse la parola, un'occhiata come un calabrone; uscii col cuore più sollevato, e mi risentii io, perchè finalmente, pensavo tra me e me: - O che mi sono tirato tra' piedi io, il suo figliuolo? - «Maggior difetto, men vergogna lava», caro il mio vecchio, dicevo: un'altra volta starà più attento! e me ne uscii passandogli dinanzi, guardandolo bravamente in faccia.
Sono passati quasi sessant'anni dal fatto; e mi capita come per un caso che par fatto apposta, la descrizione delle ultime ore di Giuseppe Mazzini a Pisa: veda il lettore la strana coincidenza: il giovinetto che io aveva quasi mandato all'altro mondo, era il figlio dell'Avv. Raffaello Papeschi che aveva fatto la ricognizione di morte del grande pensatore ligure.
Ebbene: il primo impulso nel leggere il suo nome è stato di dire fra a me e me: - O se invece del figlio fosse stato il padre!... ma là, siamo generosi: e si cali una pietra su questo ricordo penoso e cattivo.
Le ultime ore di Giuseppe Mazzini.
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