Quante volte appoggiato alla spalletta della cortina di Muro che volge verso il Monte di Quiesa, io vedeva col pensiero, la piazza, la casa, la finestra del mio tesoro. Essa mi scriveva letterine brevi, piene di cose gentili e di dolcezza: una volta mi mandò una piccola ciocca dei suoi biondi capelli, legata a un filo di seta verde. Ho tenuto quei capelli molti e molti anni come un inestimabile tesoro, quasi un talismano; finchè altre dita tremanti e gelose gli strapparono da dentro un libro ove dormivano tranquilli, gettandoli al vento che seco se li portò nella consunzione di tutte le cose. Eppure, sebbene chi mi fece questo sgarbo io amai; con un amore più che appassionato, furente, sentii quanta viltà alberga sempre nel cuore umano, e quanto obliosa e sconsiderata è la gioventù e l'amore egoista.
Io fuggiva da Lucca assai volte, per veder quella fanciulla che mi aveva ammaliato, con la sua illusione; che m'aveva incatenato con una catena illusoria e più forte dell'acciaio. Venne il carnevale e ci demmo un appuntamento per l'ultimo veglione al Pantera.
Sarebbe stata vestita - mi scrisse - da Contadinella lucchese. Io dovevo vestirmi da domino nero.
Giunge finalmente il desiato giorno; il mio buon amico Odoardo Carina, vecchione gioviale e quanto mai allegro, mi venne a prendere. Entriamo nel vestibolo, stemmo fino alle due del mattino ma io non potei trovare mai la bella forosetta che il mio cuore fidava, sapeva che sarebbe venuta. Cerco per ogni verso, nei palchi, nel parterre ove ballavano come matti.
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