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      Fu in codesto tempo che misero al cimento il mio carattere già, ormai, formato e promettente assai: dico promettente, in senso buono, perchè se ho fatto delle ragazzate e ho compromesso, una, due volte sole in vita, la buona nomèa di ragazzo giudizioso e assennato; l'ho confessato senza reticenze, e perciò sento in coscienza di non essere stato nè migliore nè più cattivo della generalità de' ragazzi: «Peccato confessato - dice il proverbio - è mezzo perdonato.»
      Ho detto altrove d'un certo antagonismo col mio cugino Carlo; difatti non passava occasione che lui non cercasse d'aizzarmi e di mettermi a repentaglio di disgrazie: e naturalmente cascavano sempre addosso a me, di tutte le marachelle che venivano scoperte se n'attribuiva sempre a me la paternità, tanto, che, oramai, non c'era cosa che accadesse un po' insolita che non sbottassero a una voce «È Giulio; è stato lui; accoppalo:» e m'avrebbero accoppato davvero se, col carattere caparbio, non avessi unito una tenacità a tutta prova «Frangar non flectar» era, anche allora il mio blasone, e «Frangar non flectar» entrava per me in tutte le azioni giornaliere della mia piccola esistenzina: insomma ero testardo.
      La sera del giorno de' morti, saranno state le dieci - si preparava già le casse per tornare a Lucca; e stavamo tutti seduti in saletta chiacchierando, non so come cadde il discorso sui poveri trapassati. Carlo si volta a un tratto e mi dice: «Saresti buono d'andare in chiesa al buio a bevere il vino santo a quest'ora?» Noti il lettore che fra Carlo e me se ne bevevamo di nascosto tutti i giorni un paio di bicchierini e ogni poco bisognava che la donna ce ne portasse un fiasco in sagrestia; anzi in casa dicevano ogni poco: «Ma quanto beve, prete Pappaciucci.


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La vita di Giulio Pane
di Giulio Tanini
Tipogr. Waser Genova
1922 pagine 497

   





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