Mentre, dunque, in pianto aspettavo l'indomani, giorno destinato alla partenza, venne a prendermi, verso l'imbrunire, il buon Policarpo e mi portò con lui a comprarmi un paio di stivaletti. Il buon uomo (l'ho già detto), non era mai stato gran che espansivo con me; m'aveva voluto bene sì, ma a modo suo; si vedeva che sapeva la buon'azione che faceva di tenermi, orfanello abbandonato, sotto il suo tetto: ma si vedeva pure (o almeno lo sentivo io) che a scavar bene bene sotto quel ruvido miscuglio d'indifferenza, di gentilezza, d'umanità, c'era pur un zinzin di noia d'avermi preso; noia che non si traduceva in aperta rampogna che per bocca delle sue sorelle, pinzocchere rinseccolite.
Mi comprò il più bel paio di stivalini che si trovassero in tutta Lucca; mi portò al Marcucci; mi fece prendere la cioccolata; che non mi voleva andare nè in su nè in giù; mi regalò dieci lire; mi dette de' buoni consigli de' quali non ne ricordo più uno e... detto addio alle donne che s'erano radunate intorno e mi guardavano fisso...., alle 10 partii da Lucca per Firenze.
Io non avevo potuto versare una lacrima; tutto il giorno, tutta la notte piansi il mio tempo tra i miei libri; presi quelli che mi appartenevano; rimisi gli altri del nonno nella libreria grande; e a vedere quelli scaffali vuoti, privi ormai dell'anima che li faceva vivere, sentii un gran freddo al cuore e conobbi l'amarezza della separazione da tutto quello che c'illude e ci fa parer bello il mondo.
Nel giorno dell'ascensione del '65 fui cacciato da mio padre in una terza classe, fredda e miserabile, in mezzo a una turba di contadini; nel giorno 31 dicembre del 1869, il nonno m'accompagnava, tutto manieroso a un vagone di prima classe, dove trovai una bellissima signora sola, la Gegè Ottolini, che andava a Firenze.
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