Vedrą presto il lettore quanta fiducia era da prestarsi a codesto pezzo grosso pretaccio sfegatato e ipocrita di sette cotte che andava alla messa tutte le mattine.
CAPITOLO XX.
Eravamo ne' primi mesi del '69 e la primavera si presentava con tutte le sue pił sfarzose primizie: il cielo era azzurro e sempre puro; le campagne riversavano su Firenze le dovizie pił ricercate de' loro orti e giardini; il popolo pareva raddoppiato per le strade, e si sentiva un odor di gaggie, di rose e di violette, che facevano dire che quella era veramente la ricca e bella Fiorenza, la cittą de' gigli e delle favole; in ogni casa, in tutte le strade, pulite, spaziose, aereate, si sentivano cantare canarini e lucherini, e dalle finestre aperte folate di note di pianoforti e d'altri strumenti musicali riempivano il cielo d'armonie gioconde o malinconiche, serene o tristi a seconda dell'umore di chi suonava.
Frequentava la casa dello zio Azzolino, un bravissimo professore del Collegio Cicognini di Prato; insegnava fisica, ed era tanto esperto nella scienza, quanto ameno e bizzarro; vero spirito fiorentino, il lepore stava di casa sulle sue labbra e presto fummo grandi amici e compagni di passeggiate.
Dico il vero: ho sempre sentito un tirati-in-lą per tutti i professori che ho conosciuto in vita mia, per quel loro maledettissimo tono di pedanteria del quale non possono farne a meno: quelle pose, quelle mutrie, quel sussiego che apparisce ogni poco sulle loro faccie, e che se lo portano dietro anche nell'andatura; mi ha tenuto lontano da costoro, sempre e anche quando, accostarglisi, sarebbe stato un vantaggio per la mia brama di sapere.
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