Virginia mi scrisse: fu lei stessa che pensò a me come a un fratello (diceva) come a uno di quegli spiriti eletti che sentono tanto la vita, che soffrono tanto delle infelicità delle anime in pena; e la sua era un'anima in pena, racchiusa in una gabbia di ferro che invano le sue ali ferite tentavano aprire:
- Oh Giulio, Giulio, proseguiva - salvami da questa prigione di ferro e d'ombra ove l'anima mia intristisce, avvizzisce e muore!
E io risposi: che conforto poteva dare a lei un'altr'anima solitaria, costretta a un giogo di ferro, per un vil pezzo di pane, senza speranze, senza gloria, senz'avvenire? lavorare, vegetare, morire - dicevo - è questa la vita dell'uomo, e d'un uomo che arde di mille furori per divenir buono, utile, virtuoso?
E così la corrispondenza s'avviò e ci consolavamo a vicenda, maledicendo il destino, sognando la liberazione, un altro mondo più buono, più sincero, più elevato. Raccolsi col tempo tutte le sue lettere, che furono migliaia, le tenni gelosamente rinserrate dodici anni: tutta una vita, anzi, due esistenze, si fusero in quelle povere carte, per naufragare come foglie di rosa strappate di sul fiore, nel fango e nell'obbrobrio dell'oblio.
Avevo scritto intanto ai superiori per essere traslocato dal servizio degli uffici d'ispettorato, a quello del telegrafo: siccome l'esame era stato buonissimo (anzi devo dire brillante) avevo avuto tutti i voti all'unanimità; mi sentivo orgoglioso e andavo altero pensando alle cento lire non come premio d'abilità; ma col pensiero recondito di scapparmene a Siena e di riveder Virginia, la quale oramai aveva tutta l'anima mia.
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Giulio Giulio Siena Virginia
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