Virginia s'accomiatò (eravamo giunti a Firenze e in casa dello zio) con volto tranquillo: doveva farlo! essa aveva una gran forza su se stessa; io tremava, ma pure bisognava che nascondessi lo struggimento che sentivo dentro di me; guai, se qualcuno della sua famiglia avesse trapelato l'arcano segreto - essa si sarebbe uccisa; così mi diceva; che stessi di buon animo, aspettassi le sue lettere, scrivessi ogni giorno, che lei m'avrebbe mandato le sue al nome di Enrico Maclaurin, fermo in posta; che preparassi tutto per la fuga! E le lettere arrivarono e con esse il piano segretissimo per portarla a Venezia e io promettevo (cosa dovevo fare?), pensavo, sognavo...... senza trovare il bandolo per dipanare l'arruffata matassa che, sebbene ancora ragazzo, mi figuravo ingarbugliatissima.
Venne in quel tempo a Firenze - era d'ottobre - il caro nonno Policarpo e mi volle rivedere; e trovandomi più secco e allampanato di Stenterello, e più giallo e verde di don Chisciotte, mi prese sotto il braccio e mi volle seco a Gragnano, ove già tutta la famiglia era a villeggiatura.
Fu codesta gita la causa di un gravissimo incidente, anzi di un fulmine a ciel sereno, che distrusse in un attimo con la fatalità di una malazione, tutti i nostri piani di fuga e di felicità futura.
Ritiravo le lettere di Virginia da me alla posta di Lucca, ed erano (come sanno tutti gl'innamorati) ore di gioja e di disperazione; di gioja, per le appassionate espressioni di Virginia; di disperazione perchè, sollecitandomi febbrilmente a compiere il giuramento della sua liberazione (come essa diceva) io ne vedevo sempre più difficile l'uscita: fuggire - dicevo tra me - fuggire.
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