.. che il morto... Come siamo sciocchi da giovani!
CAPITOLO XXIII.
Come mi sembrò tetra e deserta la prigione orbetellana! Quell'arida landa, la solitudine del luogo, le piante rachitiche e riseccolite che si trovano sparse come cadaveri lungo la via che dalla stazione conduce alla città; lo stesso cielo quando io giunsi - velato, smorto, tristissimo, - m'agghiacciarono come se la morte, con la sua mano secca e frigida, m'avesse ghermito per non lasciarmi più. La stessa campagna esalava un odore di malattia e di morte, e con quella nel cuore, e col terrore nel cervello, io faceva l'ingresso nel povero paese d'Orbetello, in sulla sera, trainato da una carrozzuccia sgangherata, tenuta su con le corde.
Avvicinandoci però alla città alta, io vedevo luccicare dinanzi a me come un mare chiaro, e argenteo: domandai cos'era quel chiarore così bello, e il vetturale mi rispose:
- Quello, vede, è il nostro famoso stagno - Famoso! - (pensai fra me) cosa vi può essere di famoso in questa desolazione maremmana?
Man mano però che ci avvicinavamo, lo stagno spiegava realmente le sue belle attrattive. Splendeva nel mezzo del cielo la luna piena: era un chiarore come di giorno, e si sarebbe potuto leggere sur un libro. Una luce misteriosa e soave, tranquilla e diafana, come la fosforescenza d'un mondo morto e silenzioso, pioveva adagio adagio su tutte le cose e rallegrava i tristi oggetti della solitudine maremmana che di pieno giorno incutevano tanta pena, tanto sospetto. Si staccava, lontano lontano, il profilo nero delle mura della città tagliando l'azzurro del cielo con una linea così netta e viva, che pareva uno di quei castelli medioevali tante volte ammirati nei quadri del Perugino e del divin Leonardo.
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Orbetello Perugino Leonardo
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