Lo stagno brillava, increspato, del color dell'acciaio brunito; lene lene una dolce brezzolina, silenziosa come il batter dell'ala d'un leggerissimo uccello, lambiva la superficie di quell'acque smorte e dormenti, e portava alle narici il morto odore della risacca erbacea, quell'odore così speciale degli acquitrini maremmani, così noti a chi ci vive, così paurosi a chi ne teme le buffate deleterie e mortali.
Lontano lontano, o a pochi passi sulle rade, piante solitarie, il mesto grido del Chiù... cui rispondeva da lontano un altro mestissimo Chiù, risonavano tutt'attorno, in quel silenzio campestre, come un canto fioco, interrotto da voci uscite dagli spechi mortuarj e che pareva dire: - Qua si more, qua si more, qua si more.
Finalmente, s'arriva in città; smontiamo a una osteria, o albergo, del quale non ricordo il nome, e per una stretta scaletta di legno che scricchiolava allegramente e pareva ridere delle mie apprensioni e paure, entriamo in uno stanzone dove stavano raccolti una ventina d'uomini. Un oh! generale di benvenuto m'accolse: mille braccia mi sono attorno; chi mi prende il cappello, chi la valigia con le mie povere robucce: (l'inseparabile cassa de' libri verrebbe l'indomani): il bruno oste, l'amabile Saccoccione, m'affronta con un manone sulla spalla e mettendosi l'altra manona sul cuore mi dice: - Caro sor Giulino, qui siamo poveri orbetellani, sperduti nella volgare maremma; ma qui ella troverà cuori amanti, amici sinceri, buon vino, tordi a bizzeffe, una buona pipa, belle ragazze e un cuore a' suoi comandi.
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Chiù Chiù Saccoccione Giulino
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