Con Lemmi, imprendemmo dunque una, dirò così volgarizzazione delle teorie internazionaliste, ricavate dalle opere di quei filosofi che cominciavano ad apparire in Italia; spedivamo articoletti, che io compilava; preparavamo lezioni verbali che noi tentavamo introdurre con piccole conferenze, tra i marinai del porto, e avevamo scelto per scuola e cattedra delle nostre idee, un caffeuccio detto «The Cardiff Castle», vicino all'allora piazza detta Colonnella. Qui si radunava il fiore dei bassi strati sociali; facchini, barcajoli, caricatori e scaricatori di carbone, marinai livornesi e di altri porti d'Italia. Io m'ero fatto molti amici in tutte quelle piccole masse di lavoratori che abbondavano allora nel porto di Livorno. Livorno era, in quegli anni, uno dei più fiorenti emporj d'Italia, essendo portofranco; bisognava vedere il movimento e il traffico in ogni ora del giorno e della notte; Via Vittorio Emanuele, che oggi non si può nemmeno paragonare a una strada secondaria d'un porto di terz'ordine, era un corso continuo. Marinai di tutte le nazioni, andavano e venivano; la città era ricchissima, superba e contava per di molto nella storia. I livornesi sono un popolo forte, aperto, generosissimo: «il cuore dei livornesi» frase, che è divenuta proverbiale non ismentiva davvero la verità delle sue parole: la sua plebe (brutta parola per i borghesi, ma altamente onorabile nel mio cuore e sotto la mia penna) la sua plebe, dico, è d'una gente onesta, gagliarda, lealissima, altruista e virile: uomini come Sgarallino, Dodoli, Bartelloni, Nesi, bastano ad affermar nella storia il proprio valore; e amavo ed amo Livorno come se fosse la patria mia, e conservo dei suo figlioli la memoria commossa e riconoscente.
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