Tutt'intorno a due tavolini, ce ne stavamo sorseggiando il nostro ponce nero, quando, sul tavolino nostro, rimbalzò una buccia di ponce: Gigi, Fineschi, alcuni altri si strizzavano l'occhio per darsi a capire di finir la bibita e andarsene per non attaccar lite; ma io, che voltavo le spalle al gruppo de' livornesi che ci avevano preso di mira, guardando dal riflesso delle lenti, vidi chi era che tirava e non mi potei reggere: m'alzo dallo sgabello, mi pianto ritto a due passi dal tavolo di marmo dov'era quella raccaglia di prepotenti e:
- Chi è di voi, nati di cani, che fa tanto il bravo da lontano? Esca fuori, cosa si crede, che abbiamo paura? (È stato sempre in me un impulso invincibile e del quale non ho mai saputo rendermi ragione, questo: che tutte le volte che ebbi ad altercare con qualcuno, m'è venuto fatto di metter la mano in tasca, come per prendere un arme, che mai ho portato in vita mia.
Tace il brusìo del caffè come per incanto; non si sarebbe sentito volare una mosca: i miei amici allibiti, non avevano una goccia di sangue addosso, perchè sapevano, più pratici di me che il livornese non scherza, e per di più che quella razzumaglia la va a cercare col lumicino.
Que' cinque o sei giovani che erano al tavolino mi guardavano di sotto in su con quegli occhi belli e virili che mi pareva impossibile mi volessero male: uno di loro, a un tratto, prende il bicchiere del ponce e dice: - To bevi, bimbo; mi piaci; sei un omo te, non te la fai addosso te! - e m'agguanta per un braccio e mi tira vicino: - Qua la mano, giovinotto!
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Gigi Fineschi
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