Il giorno prima di partire, andai a salutare il mio mare; mi sarebbe parso di fare una cattiva azione se non fossi andato, per l'ultima volta, al mio solito posticino a fantasticare e a far de' castelli in aria, in mezzo a tutte quelle alberature, a tutti que' barchettajoli che mi conoscevano ormai uno a uno; sulle calate affollate sempre e sempre cambianti e di gente e di bastimenti e di tempo: Livorno - l'ho già detto - era, in que' tempi il primo emporio d'Italia; vi gettavano l'àncora navi di tutti i paesi del mondo; il porto, ossia la Darsena, rigurgitava, a volte, di un numero così grande di bastimenti, che le alberature formavano una foresta spessa e folta ch'era una maraviglia a vedere.
Tornato a Livorno dopo trent'anni, (cioè dopo il mio primo soggiorno nelle Americhe) non ritrovai più la mia Livorno del 1870; le strade cupe; le piazze deserte; il porto silenzioso e morto; quel popolo così forte, così virile, così lavoratore, gemeva nell'abbandono e nell'inopia; un sol cantiere - quello de' Fratelli Orlando - lavorava e dava pane a' un migliajo di famiglie. Certo non può negarsi che codesto Cantiere avesse delle buone intenzioni e sapesse tener alto il prestigio e il nome del suo fondatore, Luigi Orlando, siciliano, di famiglia liberale, e che la storia ricorderà come l'Armajolo di Cavour; erano cinque fratelli dei quali Salvatore, della spedizione medici; Giuseppe fu de' Mille; gran fatto in sè stesso, perchè dimostra con quanta forza di core, e di sangue e di volontà d'intelligenza, la maschia razza siciliana fosse venuta a trapiantare i suoi semi nella terra labronica; ma tutto il resto, gemeva in un vergognoso e miserrimo abbandono.
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