Io non sono Shakespeare, disgraziatamente, e perciò non m'azzardo a ponzare qui lunghi ragionamenti sulle vicende umane, sulla morte esull'eterna vanità del tutto;
perchè la filosofia, se è originale, può passare (in tempi di buffoni come quelli in cui viviamo); ma però soltanto un'osservazione semplice e adatta alla zucca dei miei piccoli lettori ed è questa: che, generalmente, noi visitiamo poco le Case dei poveri Morti; non educhiamo abbastanza il cuore dei bambini a riflettere sulla caducità umana, e sul nulla del mondo; anzi ci affanniamo costantemente a sottrarre a la vista dei nostri piccoli, le scene dolorose della vita; i profondi dolori che s'abbattono sulle povere capanne e i tuguri degl'infelici; le scene di ambascia, di miseria, di sofferenza delle soffitte; come se l'esistenza umana (che è un soffio fra due eternità oscure e terribili) dovesse essere una gioia continua, un riso perenne, un passatempo giocondo, qualche cosa di lieto e di ridente! Forse è per questo che l'anima dei giovani, punto punto che la sventura o il dolore li colga, se ne risentono e ne soffrono con un'intensità cento volte più penosa e straziante.
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Fortunatamente avvenne, in quei giorni, un cambiamento di personale; e mutando visi, mutò, per me, il tenor di vita come dal giorno alla notte: un amico, un dolce amico, veniva a divider meco le ansietà del lavoro e i pochi istanti di libera allegria che c'erano concessi.
Alberto Bozzelli, il nuovo telegrafista, veniva da Napoli, sua patria: non era più un giovinetto; non era ancora un uomo anziano.
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