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      Rimasi a Monterotondo ancora una ventina di giorni; ma ardendo di voglia di veder Roma, di trovarmi anch'io a quei giorni famosi non spettatore lontano, ma testimone oculare, magna pars umile e modesta feci domanda d'essere annoverato nel nuovo personale della stazione di Roma Termini, dove mi trovai, a' primi d'ottobre del '70.
      CAPITOLO XXVI.
     
     
     
      Quando il treno mi scaricò sull'imbarcadero che m'aveva condotto a Roma, scesi in un baraccone che mi fece l'effetto d'un serraglio di bestie feroci. L'attuale stazione non esisteva ancora; rimasi male, e cercai invano di scoprire con gli occhi quella venustà e quelle memorie famose che hanno reso Roma la Capitale del mondo. Ma la Roma vera, non era costì; la troverei, però; mi buttai intanto a corpo morto dentro i suoi borghi, e giù giù da Magna Napoli, Via Panisperna, Piazza Venezia il Gesù, il Corso, cominciai a orizzontarmi e aprire il cuore all'allegria.
      Ero in Roma, nella famosissima Roma, non più oggi sotto le grinfie del papa, ma casa nostra e nostra di costumi e di fede. Vedevo i nostri bersaglieri, la nostra fanteria, l'artiglieria, il treno, il genio militare, sparsi dovunque: pareva che Roma si svegliasse da un sogno millenario e avesse aperto le sue braccia, le sue case, i suoi palazj per ricevere degnamente i suoi figli. Sorvolerò la parte anedottica di quei primi mesi; chi ha letto Ugo Pesci, i giornali e le cronache di quei giorni straordinarj, non ha bisogno di legger da me le descrizioni pedestri che io ne potrei fare: tratteggerò, per mio comodo, le impressioni mie, oggettivamente, riportando il mio pensiero a quei cari giorni, ormai così lontani e sbiaditi nel ricordo, ma così vividi ancora nel mio cervello e nel mio cuore che mi par d'esser giovine a quel modo come quando, gettando il berretto nell'armadio delle pile, mi slanciavo furibondo per le strade, e dopo aver mangiato un boccone, correvo strade e piazze, esaminavo monumenti, mi fermavo estatico dinanzi a' ruderi di cui ogni casa ne ha incrostati de' pezzi preziosi, decifravo scritture antiche su' pietroni mezzi corrosi; mi fermavo per ore e ore seduto nel Colosseo a meditare sulla caducità degli eventi umani, dei popoli, delle razze, delle nazioni e dei governi; m'arrampicavo, su, su, fino alle ultime gallerie del Colosseo e di là, spingevo lo sguardo lontano lontano sulla desolata campagna romana, sui monumenti, sui famosi Colli che la storia, ad uno ad uno, ha segnato e resi immortali per l'eternità. Ed era cosí potente e viva la memoria, dei fatti storici ch'io avevo imparato su' banchi da scuola da fanciullo, (e non erano ancora trascorsi molti anni) che tutte le principali scene, i personaggi celebri che avevano brillato a' tempi dei re, poi degl'imperatori, poi dei barbari fino a quelli luminosissimi della Rinascenza, quando papa Clemente VII, papa Giulio II, Leone X, ecc. incoraggiando le Arti, ospitavano gl'immortali Michelangiolo, Tiziano, Raffaello, Cellini e la pleiade straordinaria di quegl'ingegni maravigliosi, che stamparono un'orma indelebile, e inimitabile, anzi inaccessibile dall'umanità futura.


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La vita di Giulio Pane
di Giulio Tanini
Tipogr. Waser Genova
1922 pagine 497

   





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